Gabriele Salvaterra

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Giocando a bocce sull’orlo del baratro - Gabriele Salvaterra

(...) nel mondo postmoderno tutte le distinzioni diventano fluide, i confini si dissolvono e tutto può tranquillamente apparire uguale al suo opposto; l'ironia diventa la sensazione perpetua che le cose potrbbero essere alquanto diverse, sebbene mai fondamentalmente o radicalmente diverse.

Harvie Ferguson (citato in Modernità Liquida di Zygmunt Bauman).


Luoghi di transito, spazi con una precedente funzionalità riadattati a esigenze inaspettate e d’emergenza,  migrazioni di popoli, spettacoli di strada, controlli polizieschi, giocolieri e animali fuggiti da altre narrazioni  (o anch’essi migranti ma a causa del clima?), cataclismi a margine, voragini e smottamenti, operazioni  militari, di sorveglianza o antiterroristiche, scorie radioattive, luna park e giostre, capitelli e sculture votive e, infine, la stampa, ubiqua e onnipresente con i propri cameraman, inviati e operatori a rendere tutto questo  reale, a reificarlo, per poi poterlo confezionare e proiettare in una dimensione spettacolare. Ci troviamo negli ambienti di una fiera d’arte ma di un tipo che non si è mai visto prima.  
Le tracce dei dipinti scomparsi o da poco levati dalle pareti ormai spoglie sgombrano il campo a qualsiasi  dubbio. Tra quegli stand qualche tempo prima era possibile portare a termine compravendite di opere d’arte.  Ma come nelle vecchie fabbriche abbandonate, vestigia di un’epoca passata in cui il settore secondario era  quello trainante dell’economia, diventate oggi spazio d’abitazione abusiva, anche qui la funzione d’uso  originaria si è persa. Anche qui gli ambienti esclusivi (perché escludono e separano certe fette della  popolazione) si sono naturalmente riconvertiti a una miriade di utilizzi nuovi, determinati dal differente stato  della realtà in atto. 
Per un sottile gioco di slittamento, così minimo ma profondamente destabilizzante come da sempre nella  pratica di Antonio De Pascale, gli antichi frequentatori della fiera d’arte in questione – appassionati, studenti, galleristi, compratori, acquirenti, collezionisti, giornalisti – sembrano andare avanti nella loro routine come  se nulla fosse. Osservano le pareti spoglie con grande attenzione, chiacchierano, sfogliano cataloghi,  scrivono e-mail al computer, si riposano un attimo prima di ricominciare la propria peregrinazione. La  capacità di adattamento dell’essere umano è talmente grande che si può levargli tutto, a parte le abitudini, ed  egli continuerà a procedere in maniera immutata nella sua vita. 
È necessario partire da una dimensione narrativa e descrittiva per quest’ultima serie di Antonio De Pascale,  costituita dalle opere identificate con il titolo Rifrazioni, corpus di lavori lungamente meditato, ossessivo e  quasi sofferto che ha impegnato l’autore nella sua concezione a partire dal 2016. In esse, parte del piglio  ironico, installativo, e delle tecniche di camouflage del dipinto nell’oggetto, con cui metteva in atto  sofisticate operazioni di straniamento e detournement, ha ceduto il passo a una pittura in fondo tradizionale,  rispettata nei suoi canoni atavici. Formato quadrangolare, coerenza spaziale interna, prospettiva e  verosimiglianza, riconoscibilità chiara di elementi e situazioni, unità tonale delle luci, proporzione delle  forme messe in campo. Neppure i salti dimensionali continui tra paesaggio e natura morta della serie  (un)common days del 2010 sono più presenti e l’autore sembra conformarsi totalmente a una pittura  documentativa di genere storico, presa da una capsula del tempo ottocentesca e semplicemente aggiornata  alle atmosfere e alle artificialità del nuovo millennio. Sarebbe ingenuo commentare questa virata ancor più  decisa nella figurazione tradizionale come una sorta di oblio auto-imposto alle possibilità della modernità,  senza riconoscere la grande carica concettuale e il portato profondamente sovversivo di questa serie di lavori. Il dipingere in punta di pennello non è quindi banale dimenticanza e basterebbe da sola la lunga militanza di  successo nelle file del primo Neoespressionismo degli anni Ottanta per testimoniare con quanta  consapevolezza De Pascale affronti i generi nella prospettiva dell’operazione che, di volta in volta, vuole  mettere in atto. Il suo orizzonte può essere desunto facilmente dalle macerie dell’opera Rifrazioni #14 (2017- 2019) davanti alle quali tre galline guadagnano il primo piano come gli unici esseri viventi che sembrano al  corrente della catastrofe in atto. Tra i lacerti dei muri distrutti si riconoscono Fontana (1918) di Marcel  Duchamp e Colonna infinita (1938) di Constantin Brâncuși. La modernità è finita, utopia e progresso hanno  lasciato spazio a una fluidità laterale che consente di muoversi senza costrizioni in un paesaggio artistico  frammentato e potenzialmente infinito. 
Così, questa serie rappresenta l’occasione migliore per rimettere in piedi la presunta oggettività della pittura  di storia, il suo carattere emblematico ed eloquente. Più l’apparenza è credibile, verosimile, plausibile, più  doloroso diventa vedere rispecchiate nelle sue forme incongruenze linguistiche e tematiche che non sono  altro che quelle già presenti in noi e nella nostra disequilibrata società. Da “postmoderno consapevole”, De  Pascale percorre i generi e assume gli stili. La sua angolazione è la stessa dei grandi cineasti del passato, che 
riescono a esplicare la propria volontà poetica rispettando la forma tradizionale del western, della science fiction o della commedia, a seconda dell’occasione.  
In questo caso, appunto, sono gli stilemi della pittura di storia seria e ponderata, di realismo e neorealismo, a  costituire i paletti all’interno dei quali trovare una libertà espressiva “in negativo”, nelle maglie già  preimpostate dal genere di riferimento. Ma questi vincoli diventano punto di forza nel momento in cui  contribuiscono a realizzare una favola pittorica affascinante, tenuta insieme con tanta maestria solo per poi  farla crollare con uno schianto ancora più sonoro, che risuona in consonanza cacofonica con il crollo delle  nostre certezze contemporanee. 
L’attività guastatrice di Antonio De Pascale rimane quindi immutata. Come nei suoi precedenti lavori  pittorici sagomati e oggettuali, l’artista si lancia oltre le linee nemiche – del mercato, della pubblicità, dello  spettacolo, della merce, del capitalismo, delle oligarchie, della finanza, delle disuguaglianze – per attuare  leggeri scollamenti dove tutto, a uno sguardo distratto, appare uguale ma si rivela anche completamente  diverso per un minimo spostamento che ne altera la sostanza dei meccanismi interiori. Per questo i  personaggi che abitano i non-luoghi di questi stand (ambienti temporanei e asettici, funzionali a un’attività  limitata) possono continuare a visitarli come nulla fosse, perché, per loro come per noi che guardiamo da  fuori, la commedia usuale resta inalterata. E così risultano davvero suggestive davanti a questi quadri, al  tempo stesso riposanti e aggressivo-inquietanti, le parole di Harvie Ferguson riportate in apertura: “le cose  potrebbero essere alquanto diverse, sebbene mai fondamentalmente o radicalmente diverse”. In effetti, come dimostra il 2020 (ma non è il caso ora di parlarne nello specifico), basta davvero poco  affinché le cose diventino alquanto diverse senza che questo cambiamento determini una vera riconversione  sostanziale nelle persone e nelle cose. Ormai non si spera neanche più in una rivoluzione ma si sa benissimo  che la nostra realtà sarà fatta di piccoli dislocamenti e che l’umanità continuerà ad abitare lo stesso mondo, a  vivere gli stessi rapporti di potere, solo facendo percorsi diversi e senza mai arrestare la china pericolosa  imboccata da tempo. Anche dopo il cataclisma tutto rimane uguale e il problema maggiore continua a essere  la possibilità di cenare fuori o, come in questo caso, di visitare una fiera d’arte.  
Il peso della serie Rifrazioni sta proprio nel ratificare, tramite l’indifferenza dei personaggi che percorrono  queste scene, un disagio generalizzato e un riflusso politico-sociale che sembrano aver caratterizzato tutto il  primo ventennio del nuovo millennio. Dal crollo del World Trade Center nel 2001, fino alla crisi del 2020,  “necessario” punto di arrivo che non ha fatto altro che accelerare disequilibri, assurdità, ingiustizie,  emarginazioni. Nel mezzo altre crisi economiche (2008), migrazioni, cambiamenti climatici, la graduale  destrutturazione del processo di unità europea e, come un basso continuo, la persistenza della guerra, vera  costante che travalica epoche e stagioni. Uno stato critico perpetuo che davanti a questi quadri ritorna come  rimosso ingombrante, perché queste persone vaganti sembrano aver subìto, ognuna in diversa maniera, gli  effetti dell’epoca che stiamo vivendo, anche se è possibile vederne soltanto le conseguenze, i punti di arrivo,  e mai le cause. Poi, si può anche sorridere per la sofisticatezza delle invenzioni linguistiche, per l’ironia degli accostamenti incongrui o per la fresca paradossalità di alcune immagini, ma lo si fa sempre, per così dire, a  denti stretti. 
Si conferma dunque una qualità politica in senso lato per il lavoro di De Pascale, impegnato nel rendere  evidenti una serie di questioni che “non tornano” nella nostra realtà quotidiana ma sulle quali si passa spesso  sopra con disattenzione. Assieme a questa qualità ne persiste un’altra profondamente concettuale,  semplicemente occultata e così resa ancora più corrosiva dall’ammaliante bellezza pittorica con cui la scena  è resa. Quest’ultima qualità può essere verificata facilmente, giocando a mettere in parola le scene  rappresentate nella serie e osservando come la forma estetica riesca immediatamente a farsi linguaggio  eloquente ed espressivo, critico e consapevole, se solo si prova a dirla. “Giocando a bocce sull’orlo del  baratro”, “Intervista al nulla”, “Contemplando la parete vuota”, “Accampati nella fiera d’arte”, “Skateboard  sulle rovine del modernismo”. Ecco alcuni esempi di come queste figure siano in realtà parole a cui è stato  dato corpo nel contesto di un dipinto figurativo.  
È importante, però, sottolineare come a giocare a bocce sull’orlo del baratro non sia soltanto la nostra società a un passo dalla catastrofe imminente ma anche la pratica di De Pascale stesso, che in quest’ultima serie,  imbocca una strada ancora più ambigua, scivolosa e doppia nel rischio di essere fraintesa come pittura  virtuosistica e consolatoria. È esattamente il contrario, se possibile, e l’accettazione di questo rischio, come si diceva, diventa fondamentale per provare a riprogrammare la visione delle cose a partire da quanto di più  naturale e riposante ci sembra di vedere.
Anni fa, in un’intervista a Federico Mazzonelli, De Pascale affermava che: “Le immagini vivono in  superficie, se hanno un’anima risiede nella loro pelle, staccare la pelle delle cose è possederne l’anima che  potrebbe abitarle, dislocarla sul corpo sbagliato è un sintomo, il luogo del difficile scambio dentro fuori, di  una temporalità fuori sincrono”. Lo scenario è cambiato radicalmente ma medesimo è l’affidarsi alla  superficie delle immagini, all’esteriorità delle cose, per ri-situarle in contesti implicitamente disturbanti con  un’azione dalla precisione chirurgica. Anche ora l’anima della realtà risiede nella sua apparenza e le sue  manifestazioni multiformi, sparate come schegge impazzite nel mondo plurimediale della contemporaneità,  vengono raccolte con cura dall’autore e ricomposte in un puzzle portato all’estremo, in cui ritroviamo  rispecchiati noi stessi e le nostre contraddizioni. In tale procedimento di remixing visuale, restano impigliati  nella rete iconografica di De Pascale anche cieli struggenti che, bellissimi e indifferenti, si stagliano sulle  scene assurde allestite sotto essi. Alcuni personaggi guardano oltre i muri prefabbricati del recinto fieristico,  lasciando un minimo spazio alla speranza. Forse scrutano all’orizzonte un futuro possibile. 
Gabriele Salvaterra 
maggio 2021
 


Playing bowls on the edge of the abyss - Gabriele Salvaterra

Scanning the horizon for a possible future (….) As Harvie Ferguson put it recently in his inimitable way, in the postmodern world all distinctions become fluid, boundaries dissolve, and everything can just as well appear to be its opposite; irony becomes the perpetual sense that things could be somewhat different, though never fundamentally or radically different. Harvie Ferguson (quoted in Zygmunt Bauman's Liquid Modernity)

Places of transit, spaces with a previous functionality re-adapted to unexpected and emergency needs, migrations of peoples, street performances, police checks, jugglers and animals that have escaped from other narratives (or they, too, have migrated but because of the climate?), looming cataclysms on the sidelines sinkholes and landslides, military surveillance or anti-terrorist operations, radioactive waste, amusement parks and merry-go-rounds, capitals and votive sculptures and, finally, the press, ubiquitous and omnipresent with its cameramen, correspondents and operators to make all this real, to reify it, in order to package it and project it into a spectacular dimension. We find ourselves in the environments of an art fair, but of a kind that has never been seen before. The traces of paintings that have disappeared or have recently been removed from the now bare walls clear away any doubts. Some time ago it was possible to buy and sell works of art among those stands. But as in the old abandoned factories, vestiges of a bygone era in which the secondary sector was the driving force of the economy, which have now become a space for squatting, here too the original function of use has been lost. Here, too, the exclusive environments (because they exclude and separate certain sectors of the population) have naturally reconverted to a myriad of new uses, determined by the different state of reality in place. By a subtle game of slippage, so minimal but profoundly destabilizing as it has always been in Antonio De Pascale's practice, the former visitors of the art fair in question – enthusiasts, students, gallery owners, buyers, collectors, journalists – seem to go about their routine as if nothing were wrong. They stare at the bare walls with great attention, chatting, fleafing through catalogs, writing e-mails on the computer, resting for a moment before resuming their wanderings.The ability of human beings to adapt is so great that you can take away anything, except habits, and they will continue to proceed unchanged in their lives. It is necessary to start from a narrative and descriptive dimension for this latest series by Antonio De Pascale, consisting of the works identified with the title Rifrazioni (Refractions), a corpus of works long meditated, obsessive and almost suffered/painful that has engaged the author in its conception since 2016. In them, part of the ironic, installation-oriented approach and the techniques of camouflage of the painting in the object, with which he implemented sophisticated operations of estrangement and detournement, gave way to a basically traditional painting, respected in its atavistic canons. Quadrangular format, internal spatial coherence, perspective and verisimilitude, clear recognizability of elements and situations, tonal unity of lights, proportion of the forms put into play. Even the continuous dimensional shifts between landscape and still life of the series (un)common days of 2010 are no longer present and the author seems to conform totally to a documentary painting of historical genre, taken from a nineteenthcentury time capsule and simply updated to the atmospheres and artificiality of the new millennium. It would be naïve to comment on this even more decisive turn towards traditional figuration as a sort of selfimposed oblivion to the possibilities of modernity, without acknowledging the great conceptual charge and the deeply subversive nature of this series of works. Painting on the tip of the brush is not, therefore, banal forgetfulness and the long and successful militancy in the ranks of the first Neo-expressionism of the Eighties would suffice on its own to testify to De Pascale’s awareness of genres in the perspective of the operation that he wants to carry out each time. His horizon can be easily inferred from the rubble of the work Rifrazioni #14 (2017-2019) in front of which three hens gain the foreground as the only living beings who seem to be aware of the catastrophe in progress. Among the shreds of the destroyed walls one can recognize Marcel Duchamp’s Fountain (1918) and Constantin Brâncuși's Infinite Column (1938). Modernity is over, utopia and progress have given way to a lateral fluidity that allows you to move without constraints in an artistic landscape fragmented and potentially infinite. Thus, this series represents the best opportunity to revive the supposed objectivity of history painting, its emblematic and eloquent character. The more credible, plausible, verisimilar the appearance, the more painful it becomes to see reflected in its forms linguistic and thematic incongruities that are nothing other than those already present in us and in our unbalanced society. As a "conscious postmodernist", De Pascale traverses crosses genres and assumes styles. His angle is the same as that of the great filmmakers of the past, who manage to express their own poetic will while respecting the traditional form of the western, science fiction or comedy, depending on the occasion. In this case, it is precisely the stylistic elements of the serious and thoughtful history painting of realism and neo-realism, which constitute the stakes within which to find an expressive freedom "in negative", within the framework of the genre of reference. But these constraints become a strong point when they contribute to the realization of a fascinating pictorial fable, held together with such mastery only to make it collapse with an even louder crash, which resonates in cacophonic consonance with the collapse of our contemporary certainties. Antonio De Pascale's spoilery activity thus remains unchanged. As in his previous shaped and object-based pictorial works, the artist launches himself beyond the enemy lines – of the market, of advertising, of entertainment, of merchandise, of capitalism, of oligarchies, of finance, of inequalities – in order bring about slight disconnections where everything, at a distracted glance, appears the same but is also revealed to be completely different due to the lightest shift that alters the substance of the inner mechanisms. This is the reason why, the characters who inhabit the non-places of these stands (temporary and aseptic environments, functional to a limited activity) can continue to visit them as if nothing had happened, because, for them as for us who watch from outside, the usual comedy remains unchanged. And so the words of Harvie Ferguson quoted at the beginning of this article "things could be somewhat different, though never fundamentally or radically different”, are truly evocative in front of these pictures, at once both restful and aggressively disturbing. In fact, as 2020 demonstrates (but let’s not get into this now), it takes very little for things to become quite different without this change bringing about a real substantial reconversion in people and things. Now we no longer even hope for a revolution but we know very well that our reality will be made of small displacements and that humanity/mankind will continue to inhabit the same world, to live the same power relations, only taking different paths and without ever putting a stop to the dangerous slope that we have been on for a long time. Even after the cataclysm everything remains the same and the biggest problem continues to be the possibility of dining out or, as in this case, of visiting an art fair. The weight of the Refractions series lies precisely in ratifying, through the indifference of the characters who walk through these scenes, a generalized discomfort and a socio-political reflux that seems to have characterized the entire first two decades of the new millennium. From the collapse of the World Trade Center in 2001, until/to the crisis of 2020, "a necessary" point of arrival that has only accelerated imbalances, absurdities, injustices, marginalizations. In between, other economic crises (2008), migrations, climate change, the gradual deconstruction of the process of European unity and, like a continuous bass, the persistence of war, a true constant that transcends epochs and seasons. A perpetual critical state that in front of these pictures returns as a cumbersome removal, because these wandering people seem to have suffered, each in a different way, the effects of the era we are living through, even if it is possible to see only the consequences, the points of arrival, and never the causes. Then, you/one can also smile at the sophistication of the linguistic inventions, the irony of incongruous combinations/juxtapositions or the fresh paradoxicality of some images, but it is always done, so to speak, with clenched teeth. This confirms the political quality of De Pascale's work in the broadest sense, committed to highlighting a series of issues that "don't seem right " in our daily reality but which are often carelessly overlooked. Together with this quality, there is another deeply conceptual one simply concealed and thus made even more corrosive by the bewitching pictorial beauty with which the scene is rendered. The latter quality can be easily verified by playing around with putting into words the scenes depicted in the series and observing how aesthetic form immediately succeeds in becoming an eloquent and expressive language, critical and self-aware, if only one tries to put it into words. "Playing bowls on the edge of the abyss", "Interview with nothingness", "Contemplating the blank wall", "Camped out in the art fair", "Skateboarding on the ruins of modernism”. Here are some examples of how these figures are actually words that have been given body in the context of figurative painting. It is important, however, to underline how it is not only our society that is playing bowls on the edge of the abyss, one step away from imminent catastrophe, but also De Pascale's own practice, which in this last series, takes an even more ambiguous, slippery and double-edged road at the risk of being misunderstood as virtuosic and consolatory painting. It is exactly the opposite, if possible, and the acceptance of this risk, as we said, becomes fundamental to try to reprogram the vision of things starting from what is most natural and restful to us. Years ago, in an interview with Federico Mazzonelli, De Pascale stated that: "Images live on the surface, if they have a soul it resides in their skin, to detach the skin of things is to possess the soul that could inhabit them, to dislocate it on the wrong body is a symptom, the place of the difficult exchange inside out, of a temporality out of sync”. The scenario has changed radically but the same is the reliance on the surface of the images, the exteriority of things, to re-situate them in implicitly disturbing contexts with an action of surgical precision. Even now, the soul of reality resides in its appearance and its multiform manifestations that, shot like crazy splinters in the multimedia world of contemporaneity, are collected with care by the author and recomposed in a puzzle taken to the extreme, in which we find reflected ourselves and our own contradictions. In such a procedure of visual remixing, also poignant skies remain entangled in De Pascale's iconographic network: skies that, beautiful and indifferent, stand out against the absurd scenes set up under them. Some characters look out over the prefabricated walls of the fairgrounds, leaving a minimum of room for hope. Perhaps they are scanning the horizon for a possible future